MARVELIT. PRESENT:
RAGNO NERO #17
Cacciatori
#2
Fissava
il muro davanti a sé da quasi un’ora, tentando ti tenere a bada i ricordi del
passato che come spettri immateriali bussavano alle porte della sua mente.
“Cosa sta accadendo alla mia mente?” Si
chiese in tono sommesso.
Aveva dato la sua guarigione come
qualcosa di sicuro e scontato. Forse semplicemente perché aveva terribilmente
desiderato che così fosse. La sua memoria non era perfetta. Se ne era reso
conto solo in quel momento. C’erano
delle falle in ciò che ricordava, come se fosse avvenuto un impercettibile
rimescolio durante il quale però qualcosa era andato perduto. Si stropicciò gli
occhi, sperando di poter vedere qualcosa che gli stava scivolando via
lentamente ed inesorabilmente.
Una cosa però gli era chiara: Daryl; era
lì, davanti a sé. Era cresciuto dai giorni della caccia ed ora aveva una donna:
Jenny gli era sembrato di sentire. Era lui però. Lo stesso sguardo malinconico
e riluttante, lo stesso volto da fanciullo delicato e sognante. C’era anche
quella sorda rabbia che covava sempre ai margini di quell’anima da poeta che
aveva scrutato e conosciuto.
“Insegnami.” Gli disse durante quel
giorno d’inverno. “Mostrami come avere la mia vendetta.” Gli sussurrò tra le
lagrime, mentre quasi arrancava sotto il suo peso, inchiodato a terra,
l’avambraccio premuto contro la gola. Rimase colpito dalla forza di quella
richiesta, dalla lucidità che brillava nella disperazione.
“Io non posso insegnarti come avere la
tua vendetta.” Lo ammonì.” Io posso insegnarti l’arte della
caccia.”
“Allora insegnamela.”
“Sarò un maestro esigente,
inflessibile.”
“Ed io un discepolo attento, e ancora
più esigente.”
A quelle parole non poté che capitolare.
Cercò di focalizzarsi su quel momento. Che cosa l’aveva convinto? Forse era
così solo che l’idea di avere un compagno di viaggio lungo quella strada fatta
di follia, perdizione e nefandezza in qualche modo gli dava quel sollievo a
cui, segretamente, anelava. Forse in quel giovane aveva visto qualcosa di sé,
qualcosa della sua ferma volontà di perseguire lo scopo prefissato.
Erano state i giorni della disciplina,
della caccia. Erano stati i giorni in cui Daryl era divenuto allievo, amico,
fratello e figlio.
Tutta la sua famiglia. Insieme avevano
seguito le tracce di Ben, ovunque andasse, qualsiasi tentativo facesse per
nascondersi a loro. Non gli aveva mai detto nulla. Quel segreto, solo, non gli
aveva rivelato e solo per rispetto a Peter, per quello che credeva essere un
mero clone come lui, e la cui vita voleva proteggere. Per il resto aveva diviso
tutto e tutto gli aveva insegnato.
“Sei tornato dai giorni della caccia.”
Disse tristemente. Avrebbe voluto abbracciarlo. Avrebbe voluto dirgli, “sei
l’unico ricordo caro di quel passato che tanto mi spaventa”. Invece non sarebbe andata così, e questo
perché invece lui sapeva tutti i suoi segreti.
“Non dovresti raccontarmi queste cose,
non dovresti dividerle con me.” Gli disse quella sera, mentre si scaldavano
vicino ad un fuoco improvvisato.
“Sei il mio maestro. Sei il mio amico.
Voglio dirtelo. Voglio dividerlo con te.” Così era stato ed ora Kaine sapeva.
Kaine ricordava. Ogni parola, ogni confidenza.
Tutti quegli omicidi, quelle esecuzioni.
Tutte secondo un preciso rituale. Si coprì il volto con entrambe le mani.
“Dio mio, dimmi che cosa devo fare.”
Attese in vano una risposta.
Nei
pressi di Police Plaza One, New York City – Lunedì ore 5.00 a.m.
Una
rapida sequenza di pugni al sacco. Montante, gancio, montante, diretto, un paio
di finte e ancora un diretto, rabbioso, frustrato, arrabbiato. Il sacco tremava
sotto la furia di tutta la frustrazione che era costretto, muto, immobile ed
insensibile a sopportare.
“Ci stai dando dentro!” Lo scherzò
cattivo Darren.
“Non dovresti essere all’ascolto delle
ultime notizie dei nostri vicini?” Chiese seccato Daryl, nel tentativo di
liquidare il fratello.
“Sono impegnati nella loro caccia al
nuovo nemico pubblico numero uno: il nuovo Mangiapeccati.” Fece serio lui, come
se improvvisamente gli fosse passata la voglia di giocare.
“Lo chiamano così?”
“Non ufficialmente ma il nome sta
circolando da un paio di giorni tra i corridoi e gli uffici.”
“E di noi?”
“Noi ammazziamo i cattivi. Sai che,
facendo una statistica così, su due piedi, un buon trenta per cento dei
poliziotti ci considera meritevoli di un encomio da parte del sindaco.”
“Niente poco di meno!”
“Ripuliamo la città dalla feccia e in
special modo da feccia dotata di super poteri. Anche se sono dell’opinione che
dovremmo occuparci anche degli altri.”
“Su questo punto la penso come te, anche
se è troppo presto per allargare lo spettro d’azione. Prima cerchiamo di
realizzare la fase uno della nostra missione: la drastica e sostanziale
riduzione dei criminali paraumani e mutanti in città.”
“Su questo punto? Ultimamente sono poche
le cose sulle quali andiamo d’accordo, anche se non capisco il perché.” Fece
rammaricato.
“Abbiamo lo stesso desiderio, quello di
vendicarci. Ma io voglio anche rendere la città più sicura per gli altri, per
le persone normali e per bene, come eravamo noi una volta. Come lo era la
nostra famiglia.”
“Ed io?”
“Tu godi in quello che fai. Quando
uccidi provi un brivido, come se avessi finalmente realizzato la tua più grande
aspirazione. Ecco in cosa siamo veramente differenti: io sono un assassino per
scelta, perché voglio che altri non debbano un giorno diventarlo; tu lo sei per
vocazione.”
“Sei ingiusto con me.” Darren distolse
lo sguardo, fissando il pavimento. La voce, per un istante, aveva tremato,
quasi stesse reprimendo delle lagrime.
“Neanche tu scherzi. Mi hai trattato
come una merda ultimamente.”
“Ti voglio bene.” Sbottò
improvvisamente.
“Lo so. Non ne ho mai dubitato. Te ne
voglio anche io e sappi che non devi dubitarne nemmeno tu. Però c’è qualcosa
che non và in te. Ogni volta che indossi quell’armatura, cambi. Ogni volta che
metti la maschera sul tuo volto, divieni qualcosa che mi fa veramente paura. E
quando ti sento ridere, gioioso, selvaggio, faccio fatica a distinguerti da
quelli a cui diamo la caccia. A proposito, non dovremmo occuparci anche di questo
Mangia Peccati?”
“No. Non adesso almeno. Per quanto sia
triste ammetterlo, quell’ammazza poliziotti ci sta facendo da parafulmine.
Finché sono tutti occupati con lui, non potremo lavorare meglio.”
“Allora è successo quello che temevo.”
“A cosa ti riferisci?”
“Non lo vedi da te? È già successo:
abbiamo perso la nostra anima.” Colpì il sacco con un calcio intrusivo,
facendolo oscillare paurosamente. Ne
seguì solo per qualche momento il dondolio e dopo prese l’asciugamano appoggiato
sulla panca e si allontanò, senza aggiungere altro.
C’era un muro tra di loro. Un muro
eretto giorno dopo giorno, mattone dopo mattone anche dalla sua stupidità, si
auto accusò Darren. Perché non era stato capace di capire quanto gravoso fosse
il peso che il suo amato fratello si era portato per tutti quegli anni
appresso. Per lui era diverso. La vendetta, la sua ricerca spasmodica ed
ossessiva, era tutto. Però Daryl aveva Jenny. Forse avrebbe dovuto lasciarlo andare. Forse avrebbe dovuto dirgli:
“Vai via. Considera il tuo voto sciolto, la tua promessa ottemperata. Hai fatto
tutto quello che dovevi e nessuno potrebbe chiederti di più.” Si maledisse. Si
maledisse per la sua debolezza che gli impediva di fare ciò che sarebbe stato
giusto. Si accasciò sulla panca degli addominali, tenendo la testa quasi tra le
ginocchia, piangendo. Se avesse fatto ciò che doveva, sarebbe rimasto
completamente solo. Solo.
Da
qualche parte nel Vermont – Alcuni anni prima di quanto narrato fino ad ora.
“La
caccia è soprattutto un sentimento.”
“Un
sentimento?” Chiese il ragazzo sporgendosi avanti per sentire meglio le parole
che uscivano dalla bocca del suo mentore. Il fuoco crepitava allegramente
mentre i conigli si arrostivano al calore delle sue fiamme, spandendo ovunque
un buon aroma di grasso e carni cotte. Si vergognò perché ad un certo punto
risuonò per qualche istante il borbottio sommesso del suo stomaco ma l’altro si
limitò a sorridergli con accondiscendenza e poi proseguì nel suo discorso: “ La
caccia è un momento in cui due esseri sono uniti ancora più intimamente di due
amanti. Il loro respiro è sincronico, le loro volontà diametralmente opposte ma
ugualmente intense. Ciò che li lega, indissolubilmente, definitivamente,
letalmente è la sopravvivenza. Un unico atto che corona una danza fatta di
inseguimenti, agguati, appostamenti, famelici desideri e disperate speranze. La
caccia è un sentimento terribile, grande e spaventoso come la notte senza
stelle e tutto permea e pervade: cacciatore e cacciato; sulla sua via, la vita
e la morte, sono un tutt’uno e, talmente forte è il loro abbraccio, che non le
si riesce più a distinguere.”
Il
ragazzo si strinse nella sua giacca. Nonostante le fiamme scoppiettanti faceva
molto freddo e si meravigliava di come il suo maestro invece sopportasse
stoicamente quel clima rigido. Per sua fortuna l’accampamento era stato
improvvisato in una radura riparata e quindi doveva patire poco il gelido vento
che altrove ululava senza posa. “ Da come ne parli, sembra quasi che dovrei
amare la mia preda.” Affermò, un po’ timoroso come ogni volta in cui temeva di
aver detto qualcosa di troppo o di stupido.
“Si.
Più o meno il concetto è quello.”
“Ma
questo è impossibile!” Esclamò senza riuscire a trattenere la protesta
che sentiva montare dentro “ Come posso amare qualcuno, qualcosa, che
odio così tanto! Non sono forse il risentimento e l’odio a mandarci avanti?” Si
sentì in colpa per aver sbottato in quel modo e cominciò ad aver paura di una
reazione violenta dell’altro per via del suo sfogo che ora giudicava
inopportuno. Invece, ancora una volta, quello parlò con voce ferma e
tranquilla: “L’odio, la rabbia, sono il combustibile che ci fa muovere,
spingendoci avanti. Nessuno però può prendere qualcosa, se prima non ne penetra
nell’intima e più segreta natura. L’amore è la chiave.”
“Allora
tu, perdonami se lo affermo, ameresti lui? Quello a cui dai la caccia. La tua
preda…” Forse aveva tirato troppo la corda. Forse ora lui si sarebbe stufato di
quel ragazzino che aveva accettato di portare con sé. Invece, dopo un istante
di silenzio, l’uomo rovesciò indietro il capo e rise di cuore: “Certo! Certo
che lo amo. Lo amo e lo odio al medesimo tempo. È l’odio che mi sospinge in
avanti. L’odio che mi pungola di continuo, facendomi muovere anche quando avrei
voglia di fermarmi o rinunciare. L’amore, invece, è quello che fa si che io gli
sia sempre prossimo, capace ad anticiparne spesso le mosse e a seguirne le
tracce anche quando sono sparite. Non devi cacciare solo con questo ma anche, e
soprattutto, con questo.” Disse battendosi con un indice prima la tempia e poi
il cuore. Il ragazzo assentì e ancora una volta lo guardò ammirato e un po’
intimorito. I lunghi e folti capelli scendevano lungo la schiena come un manto
e, insieme alla barba che ne adornava il mento, gli dava conferiva un’aria minacciosa e regale, come uno di quegli
antichi re sumeri che tanto lo affascinavano mentre ne scrutava gli immobili
profili sulle foto dei libri di scuola.
Il
suo mentore preso uno degli spiedi e glielo porse. Lo prese ringraziandolo e
dopo aver staccato alcuni pezzi di carne, cominciò ad addentarli famelico,
mandando qualche mugolio di lamento per via del fatto che scottassero.
Kaine
sorrise tra sé e sé, divertito. Era un buon allievo, doveva ammetterlo. Non si
risparmiava mai e dava molto più del massimo, nonostante le prove, spesso
crudeli, a cui lo sottoponeva. Non aveva voluto evitargli nessun pericolo, né
mai lo aveva aiutato, se non quando era sicuro che non se ne sarebbe accorto.
Aveva preso con sé un ragazzino spaurito e in cerca di vendetta ed ora aveva
davanti un giovane cacciatore che presto sarebbe stato pronto ad affrontare il
mondo per conto suo. Mancava solo un ultimo tassello e poi lo avrebbe lasciato
andare. Sentì un amaro languore farsi largo nel petto. Non doveva essere
egoista: anche se avrebbe voluto tenerselo vicino per sempre, doveva dargli
modo di percorrere la sua via, anche se questo lo portava lontano da lui; Kaine
strappò con i denti alcuni pezzi di coniglio bollente e li masticò con grande
compiacimento.
Ritz
Hotel, Manhattan, New York City – Lunedì ore 5.00 (Tempo presente).
Si
girò nel letto, con studiata lentezza, ‘si da far sentire al suo amante la
forma delle sue natiche che strusciava in una suadente carezza contro il suo
basso ventre.
Questi
sorrise compiaciuto e la strinse a sé, con gentile forza, e le baciò la nuca
assaporando la fragranza dei capelli e della cute.
“Devo
dire che è proprio un buon inizio per i nostri affari.” Affermò con fare
malizioso Cindy Delgado.
“Concordo
in pieno.” Confermò l’uomo che le aveva detto di chiamarsi Paul.
“Tratti
così tutti i tuoi soci?”
“Solo
quelli sexy come te.”
“Chissà
quanti saranno…”
“Meno
di quelli che tu possa credere.” Premette le sue labbra contro le sue, unendole
in un bacio passionale, carico di un sommesso e ferino desiderio.
Freedland
aspettava pazientemente al bar dell’hotel. Stava
consumando un cappuccino e una brioche quando davanti a lui si sedette il suo
padrone. Subito questi alzò una mano, quasi per ammonirlo.
“Non
darmi del lei. Non qui. Sono Paul. Paul Ravel e tu sei uno dei miei soci.” Così
si era raccomandato la sera prima.
“Paul
Ravel? Se mi consente, signore, è un nome davvero ridicolo.” Era stata la sua
risposta.
“Ne
avevi in mente uno migliore? E poi sono riusciti a rimediarmi questa identità
con il poco tempo che gli ho dato a disposizione. Non posso lamentarmi.”
Freedland
chiamò con un cenno della mano il cameriere che accorse subito, ed ordinò una colazione anche per il suo amico.
“Era
davvero necessario che si portasse… che ti portassi a letto quella, quella…
insomma, hai capito.” Non era suo compito dare giudizi personali sull’operato
del suo superiore ma non era riuscito ad esimersi dal farlo. La Delgado non gli
piaceva assolutamente. Non era una questione di moralismi. Semplicemente non si
fidava di lei.
“Era
quello che voleva. Mi trovava attraente e me la sono messa nel letto per
controllarla meglio.” Fu la allegra risposta dell’altro che prese uno dei toast
imburrati che stavano a tavola.
“Ti
sei messo a letto una serpe, ecco cosa hai fatto.” Non si sentiva assolutamente
a proprio agio a dargli del tu ma faceva parte del gioco e Freedland era stato
addestrato sin da giovane a giocare. Per tutta una vita aveva servito i suoi
padroni, spostandosi da una parte all’altra degli Stati Uniti e, qualche volta,
anche del mondo. Fingersi qualcun altro ormai era una cosa che faceva parte di
lui ma continuava a non piacergli. Versò all’altro un po’ di The mentre
aspettava che venissero a servire altri dolci e l’altro cappuccino.
“Gli
amici li tengo vicino, i nemici ancora di più.” Sentenziò Paul dopo aver
addentato un pezzo di pane.
“In
questo caso dovresti tenerti vicino anche l’altro.”
“A
tal proposito. Che cosa sta facendo?”
“Non
siamo riusciti a rintracciarlo.”
“Ah.
Non ne sono sorpreso. Sa ancora come muoversi il vecchio.”
“Decisamente
si e non c’è di che meravigliarsi. È sempre stata una delle sue specialità.”
“Pensi
anche tu che stia tramando qualcosa connesso all’affare Thannhill?”
“Si,
ovviamente. Quello che siamo riusciti fino a questo momento a scoprire non
depone a suo favore e non capisco perché non si sia ancora deciso a parlarne al
Consiglio di Famiglia.”
“Perché
se devo fare qualcosa che equivarrebbe ad una condanna a morte per qualcuno
voglio essere sicuro delle mie azioni. Abbiamo dei sospetti e degli indizi ma
nessuna prova certa.”
“Vai
troppo per il sottile e questa potrebbe essere la tua rovina alla lunga.”
“Forse.
O forse sarà proprio questo a salvarmi.”
Il
cappuccino arrivò e i due si dedicarono alla colazione.
La
macchina, una Mercedes CLK argento, non passava di certo inosservata in mezzo
al traffico newyorkese, né voleva che così fosse. L’uomo che si faceva chiamare
Paul sapeva che lo stavano seguendo. Non c’era modo migliore di farsi seguire
per tenere sotto controllo qualcuno.
“Il
vecchio è un tipo in gamba.” Pensò, guardandosi bene di dirlo ad alta voce.
Dovevano avere un microfono direzionale ad alta
sensibilità dentro il furgoncino.
“Hai
saputo niente del tizio assoldato dalla Delgado?” Chiese invece a Freedland,
che sedeva rassegnato al suo fianco. Aveva ormai rinunciato a farlo usufruire
dei servigi dell’autista ma non si esimeva dal lasciarsi scappare qualche
borbottio contrariato ogni tanto. Quello che aveva trovato assurdo però, era
stato l’aver rinunciato alla scorta. “Altrimenti li metteremo troppo in allarme
e non mi si avvicineranno abbastanza.” Aveva replicato il suo padrone. “Non
abbastanza per ucciderla.” Aveva protestato lui. Eppure lui era sicuro che non
avrebbero tentato nulla di così avventato e anche Freedland, a malincuore, doveva
ammettere trattarsi di una supposizione ragionevole. Il vecchio si sarebbe
davvero messo un cappio al collo se avesse fatto qualcosa di così stupido.
“Nulla.
Sappiamo solo che ha versato una somma di denaro pari a venticinquemila dollari su cinque conti diversi, tutti in banche
che si trovano alla Cayman ed intestati a società di cui sa poco o nulla.”
Rispose tornando al presente.
“Senza
dubbio società off shore usate dal killer per far si che nessuno possa risalire
a lui. Un po’ complicato ma ingegnoso. L’era delle strette di mano e dei
contanti è finita amico mio.”
“Deve
trattarsi di un professionista di alto profilo se fa una cosa del genere. Un
pesce piccolo non potrebbe mai permettersi un gioco del genere.”
“E
questo mi preoccupa e mi insospettisce. Perché per uccidere uno come
Kirkpatrick, avrebbe dovuto ingaggiare qualcuno di tanto costoso quando la
città pullula di prezzolati che per molto meno
avrebbero fatto il lavoro. Sapeva che qualcuno lo teneva sotto controllo e ha
voluto sbarazzarsene in fretta ma perché così.”
“Le
sembra tanto strano?”
“Non
mi quadra. È se avessimo sbagliato tutto?”
“Che
intende?”
“E
se la Delgado non fosse l’unica coinvolta in questa storia? Se ci fosse qualcun
altro? Malone trattava affari con un certo numero di persone. Non possiamo
sapere esattamente in cosa si sia andato a impantanare. Voglio che gli uomini
ricostruiscano ogni suo movimento economico negli ultimi mesi. Digli che questo
lavoro ha la priorità su tutto il resto.”
La
Mercedes voltò sulla quinta e il furgoncino lo seguì silenziosamente a discreta
distanza, come stava facendo da quattro isolati a quella parte.
Bronx
– Lunedì ore 4.00 a.m.
Il
complesso McNee prendeva nome dall’ultimo proprietario ed era un tentativo
fallito di riqualificare la zona quando andava di moda il loft. Originariamente
si trattava di una coppia di capannoni industriali in cui si imbottigliava la
birra lungo alienanti catene di montaggio, in un grande ed anonimo ambiente in
cui la luce cadeva mesta e malinconica attraverso le enormi finestre che, come
occhi spalancati di un insonne gigante di cemento, guardavano sperduti una zona
sempre più degradata, dove gli immigrati si ammazzavano tra loro per questioni
d’onore, di territorio, di semplice odio.
Il
progetto, sulla carta, era buono e questo aveva convinto Alfred McNee ad
investire danaro in quell’impresa. Invece il Bronx non fu riqualificato
sufficientemente a divenire appetibile anche per chi avrebbe avuto i soldi per
permettersi di prendere in affitto i lussuosi locali che aveva fatto preparare,
inoltre un gruppo di squatters riuscì ad
insediarvisi per un paio di giorni e la notizia finì sul Bugle, accrescendo la
già notevole cattiva fama del posto. La polizia sgomberò gli occupanti ma
questi ultimi si erano tirati dietro un codazzo di spacciatori, papponi e
prostitute che invece si erano dimostrati più duri da mandare via.
Era
ora lì, sotto il Sole, pigramente disteso tra la sporcizia accumulatasi anno
dopo anno, uno sgraziato colosso in rovina, usato dai tossici per bucarsi e dai
ragazzini per fumare il crack.
“È
perfetto.” La voce risuonò per l’ampio locale, acquisendo un sinistro riverbero
che fece invece sorridere chi aveva pronunciato quelle parole.
“Si,
signore.” Si limitò a rispondere l’altro. Feng osservava con la coda dell’occhio
il ritmico dondolio del capo di Jin Go. Sembrava un bambino eccitato perché
aveva ricevuto in dono un nuovo, inatteso, gioco. Erano
settimane che i suoi comportamenti avevano preso una piega
pericolosamente infantile e che le sue azioni parevano sempre più fuori
controllo. Da guardia del corpo gli faceva praticamente da balia. Questo,
pensava, non era un bene: lo rendeva troppo vulnerabile e in quel momento
sicuramente permettersi una debolezza del genere era una follia;
“Feng!
Questo è luogo giusto, lo sento! Gli dei non ci hanno abbandonato ma solo
sottoposto a dure prove per verificare se fossimo degni o meno del loro
appoggio! Qui Jin Go rinascerà, e qui sarà il suo nuovo palazzo del potere da
dove potrà tornare a guidare, come è giusto che sia, la potente famiglia Jong,
portandola a conquistare il mondo del malaffare newyorkese, della costa est e
presto anche quello della costa ovest.”
Se
gli antenati di Feng l’avessero visto in quel momento: proteggere un uomo che
era caduto così in basso a causa della propria incapacità era una vergogna per
lui e per tutto il suo clan; eppure era proprio quell’onore che sentiva leso a
spingerlo a rimanergli vicino, leale e silenzioso. Inoltre, c’era un’altra
motivazione. Da quando Jing Go era stato scalzato dal proprio ruolo si era
creato un pericoloso vuoto di potere nella direzione degli affari della
famiglia negli U.S.A. Aveva tanti torti, e aveva commesso molti, troppi, errori
ma a sua discolpa andava detto che quando era in sé, era riuscito a mediare tra
tutti i diversi animi nel consiglio e, avvezzo ai costumi e modi occidentali,
aveva saputo proiettare i Jong in ottiche del tutto nuove, spesso con metodi
discutibili e altrettanto spesso con grande successo. I venerabili anziani non
potevano, per quanto saggi ed illuminati, competere con le caratteristiche che
servivano alla famiglia per sopravvivere nel 21esimo secolo e in una realtà
molto distante da quella in cui era nata. Presto sarebbe scattata una guerra
interna per sostituire l’ex pupillo dei capi caduto in disgrazia e, allora,
tutti quelli che si volevano vendicare su di essa avrebbe colpito: russi,
giamaicani, italiani, ebrei e giapponesi; si sarebbero coalizzati pur di
punirli e allora sarebbe stata l’inevitabile fine. Per questi motivi, nonostante
la manchevolezza di cui era stato capace, Jin Go doveva essere graziato e
rimesso al suo posto naturale: quello di coordinatore della zona est, almeno
fin quando non si sarebbe potuto sostituirlo con qualcuno di più idoneo.
Mao
Chu era sempre stato un passo avanti agli altri ed era per questo che, all’età
di quaranta anni appena era già considerato, all’interno della Famiglia un
“onorato membro della Casa della Tigre”. Tutti gli altri avevano superato i
cinquanta ma a lui questo privilegio era stato concesso nonostante fosse ancora
giovane.
Prese
a picchettare con l’indice sul tasto per abbassare i cristalli della Chevrolet
e tirò una boccata dal suo sigaro. Un costoso Havana di contrabbando. Gustò
qualche istante il fumo nella bocca, sciacquando con un quasi impercettibile
movimento delle guance e poi si produsse in una serie di quattro eterei anelli
che ammirò soddisfatto mentre andavano a scomparire pigramente nel vuoto.
“Mi
stai chiedendo molto, Feng. Sai che se ti ho concesso questo incontro è
semplicemente per il rispetto che provo nei tuoi confronti. Sei sempre stato un
uomo molto valido: leale, efficiente e rapido nell’eseguire gli ordini; in un
momento di crisi come questa, abbiamo assoluto bisogno di te. Se farai la cosa
giusta, tornando con me davanti al consiglio, ti saranno perdonati i tuoi
ultimi gesti. Eri stato assegnato a Jin Go e un vincolo di fedeltà ti legava a
lui ma quel vincolo oggi è sciolto dagli stessi anziani che te lo avevano
imposto.” Lanciò con la coda dell’occhio, uno sguardo verso alcuni
bambini che muovevano lungo il marciapiedi i primi passi accompagnati dai
genitori. Si sentì cogliere da una grande nostalgia: Xiou Yin gli aveva dato da
poco una nuova figlia, la quarta, e avrebbe desiderato con tutto sé stesso
tornare ad Hong Kong per passare del tempo con la piccola e con il resto della
prole; invece si voltò verso Feng e continuò con il suo tono pacato:” Non
credere che io non capisca l’importanza che hai dato fino a questo momento al
tuo incarico, o il disagio che tu stia provando ora, diviso come sei tra la
necessità di mantenerti leale a Jin Go e alla Famiglia al tempo stesso. Devi
però convincerti che ormai stai difendendo un morto che cammina e diventarlo tu
stesso non migliorerà certo le cose.”
Gli
aveva rivolto quell’ultimo appello in modo sinceramente accorato, come se
stesse parlando ad uno dei suoi figli. Feng gli piaceva davvero e quando gli
avevano assicurato che erano disposti a perdonarlo in virtù dei passati servigi
e della comprensione che avevano per la situazione che stava vivendo, si era
sentito sollevato.
“
Onorevole Mao Chun, vi sono grato per la vostra generosità e per l’offerta che
mi fate. Tuttavia, sono a malincuore costretto a rifiutare.”
Mao
rimase per un po’ in silenzio, per nulla sorpreso dalla risposta. Tirò
un’ultima boccata dal suo sigaro e poi lo spense nel posacenere al suo fianco.
Fece cenno all’autista di riprendere a muoversi senza indicargli una direzione
precisa. Non gli interessava andare da nessuna parte in particolare.
“Feng,
ragazzo mio, questa era proprio la risposta che temevo che mi avresti dato e
purtroppo, era quella che mi aspettavo conoscendoti.”
“Onorevole
Mao, voi dite bene: mi conoscete; sapete dunque che non abbandonerò il mio
incarico, anche se il prezzo sarà la mia vita stessa. Quello che mi auguro è
che capiate anche il motivo.”
“Vorrei
poterlo capire. Visto che ho accettato di incontrarti, rispondendo al tuo
appello, ho intenzione di capire, prima della fine di questa conversazione,
cosa vuoi veramente.”
Feng
aspettò prima di rispondere. Quel silenzio era come la risacca del mare prima
di un’onda.
“Quello
che voglio è solo il bene della famiglia. Quel bene oggi si chiama Jin Go e
farò di tutto pur di preservarlo.”
Era
stato semplice e diretto. Ancora per nulla scomposto, Mao replicò: “Jin Go ha
commesso davvero troppi errori, non credi?”
“Ma
non quello per cui è stato condannato a morte.”
“Certo,
questo lo so bene.”
Ancora
nessuna parola. Mao gli sorrise e proseguì: “ Non ci è voluto molto a capire
che quello che la polizia ha battezzato Demone, non era al servizio di Jin Go.”
“Allora
questo è un motivo di più per togliere la condanna a morte che pende su di
lui.”
“No.
Il sospetto è stato solo un incentivo per qualcosa che alla fine sarebbe stato
comunque fatto. Il suo comportamento è stato a dir poco inqualificabile ed è
costato e costerà, parecchio alla Famiglia Jong.”
Feng
attese pazientemente che l’altro finisse di spegnere il suo costoso sigaro e
lasciò che il silenzio caricasse di maggiore impatto emotivo quanto avrebbe detto.
“Se
Jin Go muore, possiamo dire addio al dominio della famiglia su questa costa
degli U.S.A. e noi non possiamo permetterci questo. Se perdiamo ora l’occasione
di conquistarla, l’avremo persa per sempre. Il nuovo Kingpin di New York non
riesce a gestire brillantemente il suo impero come il precedente e le
organizzazioni malavitose che operano sul territorio sono in costante
disaccordo tra di loro. Eppure non passerà molto tempo che esse si uniscano,
spinte anche dai nostri tentativi di prenderci i loro traffici. Jin Go, lo
ripeto, è l’uomo giusto per sfruttare il momento.”
“Il
momento, Feng, forse è già passato e proprio per colpa di Jin Go e della sua
politica dissennata.”
“La
prego di perdonare le mie parole, onorevole Mao Chu, ma definire dissennata la
politica del mio padrone è troppo comodo. Il consiglio mise Jin Go a capo della
sezione newyorkese della famiglia Jong. Allora la sua politica non era
considerata dissennata e la sua strategia aggressiva venne largamente
condivisa. Quando si vuole prendere le uova dalla tana del serpente e si viene
morsi, non si può recriminare con nessun altro se non con noi stessi. Il
consiglio vuole rinnovamento e vuole scalare i vertici della triade ma allo
stesso tempo pretende di non pagare pegno agli dei della fortuna. Questa è
dissennatezza.”
“Le
tue parole sono taglienti, Feng, molto più di quanto avrei potuto immaginare e
temo che potrebbero costarti molto, se mai dovessero arrivare alle orecchie
sbagliate.”
“Ma
così non sarà.”
“E
perché lo pensi?”
“Perché
siete sempre stato un uomo che ha saputo miscelare avvedutezza e coraggio. Non
è certo a caso che occupiate la vostra posizione giovane come siete. Mao Chu,
se aveste davvero condiviso il parere del consiglio, ora Jin Go sarebbe morto e
io con lui. Lo sappiamo tutte e due. La
vostra forza ed influenza è grande e non basterebbero dieci come me a salvare
Jin Go. Se siete venuto qui, è perché siete indeciso.”
“Tra
cosa?” Chiese per nulla turbato quello. Ora si fissavano, lo sguardo dell’uno
in quello dell’altro, senza ostilità alcuna.
“Tra
l’eseguire un ordine che sapete alla lunga danneggerà i Jong, oppure fare la
cosa giusta.”
“E
quale sarebbe la cosa giusta?”
“Ormai,
onorevole Mao, il drago può librarsi in alto, nei Cieli, non più vincolato alla
sua vita marina.”
Feng
percorse il tragitto che lo portava alla metropolitana con calma, Prese un
giornale ad un chiosco e, dopo avergli gettato una distratta occhiata, sparì
improvvisamente tra la folla.
Mao
Chu ne cercò inutilmente traccia e sorrise. “Sei sempre molto abile.” Commentò
a mezza voce, quasi con soddisfazione. Fece un cenno all’autista che, messo in
moto, partì. La macchina si mosse con garbata pacatezza nel traffico della
città, mentre l’eminente membro della Famiglia Jong stava riflettendo.
Voltò
all’angolo tra la 5° e Arlington road,
proseguendo a passo spedito verso la stazione dei bus.
La
sua missione era andata molto meglio di quanto avesse previsto. Mao Chu era
avveduto, coraggioso ma anche incredibilmente ambizioso.
“Jin
Go è l’uomo giusto.” Gli aveva detto alla fine della conversazione,
rendendo la sua voce suadente e melliflua come sapeva fare in quelle occasioni
in cui voleva convincere qualcuno, “ e se lo aiuterà, ora che ne ha
davvero bisogno, avrà la fedeltà incondizionata di un uomo al controllo di un
operazione chiave come quella che stavamo conducendo, al momento in cui dovesse
accadere l’inevitabile.”
L’altro
era stato in silenzio per un po’ e poi aveva risposto: “ E cosa è ad essere inevitabile?”
“La
vostra scalata al controllo della Famiglia.”
Se
Feng si fosse sbagliato, Mao Chu avrebbe cercato di ucciderlo non appena sceso
dalla macchina, ordinando al cecchino appostato su uno dei tetti dei palazzi
nelle vicinanze di tirare il grilletto. Invece non aveva fatto nulla.
Probabilmente già da tempo accarezzava, nella sue fantasie, l’idea di un colpo
di mano che rivoluzionasse i vertici della Famiglia. C’era un’opportunità
concreta ora: Jin Go avrebbe gestito New York praticamente per suo conto se
l’avesse fatto graziare e lui,
sicuramente, si sarebbe preso l’onere di fargli da super visore (supervisore), a garanzia che fosse costantemente
monitorato, traendo così numerosi benefici dal suo nuovo protetto. Avere il
controllo di New York, significava arrivare a controllare Hong Kong nel giro di
una decina di anni.
“L’avidità
è il dolce veleno che mette in ginocchio anche i sapienti.” Pensò soddisfatto
dentro di sé Feng.
Contea di
Westchester alcuni km da New York City, Stato di N.Y. – Martedì ore 3.00 a.m.
“Sei
sicuro che quello sia il posto?” Chiese Peter Parker mentre scrutava tra le
tenebre con il binocolo agli infrarossi che Kaine gli aveva passato.
“Sicuro.
Sembra una innocua casetta di campagna, sperduta in questo fazzoletto di terra
dimenticato da Dio.”
“Non
si direbbe che New York è a pochi minuti di macchina da qui. A proposito, da
quanto tempo guidi?”
“Diversi
anni. Quando giocavo a fare lo stalker psicopatico in giro per gli U.S.A., ho
imparato a guidare per necessità. Sai, quando stai perseguitando qualcuno, può
essere comodo farlo al caldo, dentro la tua auto.”
“E
ti hanno dato la patente?”
“No.
Quando Felicia mi ha aiutato con la mia nuova identità di Abel Fitzpatrick, mi
ha anche procurato una patente di guida falsa. Del resto, fatto trenta ha fatto
anche trentuno.”
“Non
posso darti torto, fratellino. Io invece non amo molto stare al volante. Mi
ricorda i tempi della ragno mobile.”
“Oddio!
Non posso crederci ancora che tu te ne sia andato in giro su un trabiccolo del
genere. Voglio dire, io sarei morto dalla vergogna dieci minuti dopo esserci
uscito in strada! La ragno mobile? Ma dai!”
“Eppure,
quando il nostro Universo è entrato in conflitto con quello dell’altro Gemello
Cosmico, ho conosciuto un tipo che girava addirittura in una batmobile.”
“Batmobile?!”
“So
che suona ridicolo ma devo dire che era davvero fantastica e che un po’ lo ho
invidiato.”
“Forse,
per avere un bolide adeguato, dovresti rivolgerti a Pimp my wheels.”
“Meglio
di no. Preferisco eventualmente recuperare la mia vecchia motocicletta.”
“Quella
si che era davvero favolosa.” Fece Kaine prendendo il binocolo per dare
un’occhiata all’abitazione.
“Quelli
si che erano bei tempi. Niente di nuovo?”
“Sono
ancora tutti la dentro.”
“Che
sorpresa! Pensa che lo erano anche dieci minuti fa.”
Gli
uomini dentro la villetta stavano discutendo, in modo sempre più animato. Il
nervosismo era ben visibile e stava aumentando. Era come osservare una di
quelle scene tratte dai reality, in cui i protagonisti di turno cominciavano a
comportarsi irrazionalmente, pronti a scattare ad ogni minima provocazione,
come da copione, con la differenza che le persone che stavano osservando non
erano lì né per recitare, né per diventare famosi e, soprattutto,erano armate
fino ai denti e piuttosto pericolose.
“John
Sheppard, detto Booster Smile, Leonard Burr, detto Artic Lord, Teodoro
Catalano, detto Rocket Punch, Antonio Forner, detto Time Bomb, Jamal Garval,
detto Star Smasher…” Kaine lesse i nomi dalla lista con tono monotono,
lentamente, scandendo bene ogni singola sillaba.
“Ti
prego, basta così!” Lo supplicò Peter, che per un istante mise di tenere
d’occhio la numerosa combriccola “ Non posso credere che questa gente
usi dei nomi d’arte così ridicoli!”
“Quelli
più belli sono tutti quanti presi dai pezzi da novanta e i nostri amici la
dentro, decisamente, non lo sono.”
“Mi
sembra di essere tornato ai tempi del Flagello dei criminali.”
“Con
la differenza che questi tipi sono molto più organizzati e meglio
equipaggiati.”
“Guarda
là che villetta. Mi spieghi come mai i cattivi hanno sempre basi così belle?
Alcuni di loro hanno l’età delle matricole del college e possono permettersi un
posto del genere, oltre che le proprie armi.”
“La
casa è di un certo Benton Simmons, uno spacciatore della west coast che ha
deciso di assicurarsi un rifugio sicuro qui nello Stato di New York. Benton era
in affari con Wilson Fisk: prostituzione e pornografia, porno chic e porno
illegale; mandava al trippone le sue lavoratrici più brave, dandogliele in
comodato d’uso in cambio di droga a buon prezzo da distribuire nei suoi club e tra
i suoi amici più stretti.”
“E
qui buffoni lì?”
“Erano
tutti sul suo libro paga. Benton non si fidava di quell’ammasso di lardo di
Kingpin e così assunse un gruppetto di super criminali in erba per tenere
discretamente d’occhio le sue ragazze, così che non le sciupassero troppo. Si
incontravano qui con un uomo del loro capo quando c’era da riscuotere le paghe
ma poi Benton ha fatto una brutta fine. Qualche mese fa ha venduto una dose
tagliata male al figlio di un pezzo grosso della mala armena a Los Angeles e
quella è gente che con cui è meglio non scherzare.”
“Lasciami
indovinare. Benton è stato trovato in pessime condizioni.”
“Benton
è stato inviato alla polizia. In una decina di barattoli diversi.”
Peter
sentì un brivido lungo la schiena e provò un moto di disgusto.
“Animali.”
Sentenziò a mezza bocca.
“Concordo.
Comunque, morale della favola, il giro di Benton è stato rilevato dagli armeni
e da una gang nera chiamata i fratelli di pistola.”
“Alla
faccia del buon gusto.”
“E
finalmente arriviamo ai nostri amici: dieci, dico dieci aspiranti super
criminali che rimangono senza lavoro e che occupano la villetta che,
ufficialmente, non esiste da nessuna parte, usandola come loro personale
centrale del crimine. Formano un gruppo, gli oppositori della società si fanno
chiamare e si dedicano a rapine, furti, ricettazioni varie.”
“Chi
ti ha dato la dritta?”
“Ricordi
Charlton Dimitri?”
“Il
mio vecchio contatto di Downtown?”
“Proprio
quello.”
“Pensavo
che si fosse ritirato dagli affari.”
“Gente
così, difficilmente si ritira veramente.”
“Avrebbe
fatto bene a farlo.”
“Ed
ora cosa ti fa pensare che le prossime vittime dei nostri assassini di
criminali siano proprio loro.”
Kaine
si sistemò sul sedile della vecchia Ford comprata di terza mano da un
rivenditore del Queens. Incrociò le braccia sul petto e cominciò a scrutare un
punto lontano, come se si aspettasse di vedere, da un momento all’altro,
qualcosa di determinante per la risoluzione di quell’ennesimo, intricato, caso.
“Sono
giovani, inesperti, arroganti. Una miscela pericolosa, soprattutto per loro
stessi. Pensano di essere dei gran dritti e che fino a questo momento nessuno
li abbia scoperti perché sono delle menti superiori. Invece sono solo dei pesci
piccoli ed è per questo hanno fatto si che potessero continuare a cullare nelle
loro piccole illusioni. Al Gufo non interessano perché non intralciano i suoi
affari. A Kingpin non interessavano perché pensava fossero delle mezze
cartucce. La polizia non li ha ancora presi perché se ne serviva per arrivare
ai loro acquirenti, decisamente più importanti di loro. Adesso, con tutto
quello che è successo, se li sono praticamente scordati.”
“Li
hanno abbandonati a sé stessi.” Fece Peter mentre a sua volta si sistemava per
stare più comodo.
“Sono
dei perfetti signor nessuno. Delle nullità che presto o tardi faranno un passo
falso e diverranno cibo per vermi. Sono soli, senza amici, né tanto meno
alleati e hanno il giusto numero di peccati da scontare. Inoltre, hai presente
la mattanza della chiesa?”
“Si!
Santo Dio! Mi chiedo come siano riusciti a farla
passare per uno scontro tra super criminali ai giornali. Devono aver fatto un
accordo parecchio grosso per garantire una copertura del genere.”
“Uno
di loro, il primo della lista per essere precisi, doveva partecipare a quella
riunione ma all’ultimo momento è stato diffidato. Non lo avevano reputato
all’altezza lui e il suo gruppo. Questo significa che, anche se depennato, il
suo nome era anche su di un’altra lista.”
“La
stessa sulla quale devono aver messo mano i tuoi assassini.”
“Bingo!”
“E
se tu sei riuscito a trovarli tanto facilmente…”
“…
ci saranno riusciti anche loro.”
“Ed
ora?” Chiese Peter portandosi alla bocca il mignolo a cui, con rapidi e precisi
morsetti, cominciò a strappare una pellicina vicino all’unghia. Era da parecchi
anni che non cadeva più nella tentazione di quel vizio che sua zia aveva
cercato in tutti i modi di togliergli. Era dal giorno in cui il ragno
radioattivo l’aveva morso che non accadeva più. Nell’ultimo periodo però aveva
sopportato prove che avevano scosso profondamente i suoi nervi e pensò, che
tutto sommato, come diceva il suo amico Rucker, un piccolo vizio era lecito
concederselo.
“Hai
presente quei film thriller dove c’è sempre un killer psicopatico in agguato da
qualche parte, nell’ombra?”
“Quelli
che ci piacciono tanto. Certo.”
“Tu
sei lì, che guardi la scena. Inquadratura dopo inquadratura la vittima di turno
procede, abbassando la guardia, convinto di trovarsi al sicuro magari mentre
invece è sempre più invischiato nella trappola mortale allestita per lui. Potrà
sbucare da dietro una porta, dall’armadio o anche da sotto il letto ma sai
benissimo che una cosa è certa.”
“L’assassino
verrà fuori e gli farà la festa.”
“Sicuro
ed inevitabile: come la morte; loro si sono rifugiati nel posto che pensano sia
il più sicuro del mondo, allarmati per quanto sta accadendo, e sono convinti di
poter affrontare chiunque da la dentro.”
“Grosso
errore: non si sono accorti di noi che li stiamo solo tenendo sotto
osservazione, figuriamoci se si accorgerebbero di qualcuno intenzionato a farli
fuori e che è riuscito a spuntarla con decine e decine di paraumani e mutanti
radunati nello stesso posto. La domanda ora è: quando li colpirà?”
“Quando
avranno abbassato la guardia ancora di più. Quando non potranno reagire in alcun
modo. Quando saranno sicuri di ottenere il massimo risultato con il minimo
sforzo. Quando non ci sarà più via di fuga.”
“Secondo
me, tra qualche ora. Saranno stanchi e sfiniti e probabilmente penseranno che,
con i chiarori dell’aurora nessuno oserà attaccarli.”
“Corretto.”
“E
tu sei sicuro che chi stai cercando agirà proprio così?”
“Si.”
“E
perché?”
Ci
fu un silenzio che durò per un lungo, oppressivo minuto. Alcuni gufi fecero
udire il loro canto dal bosco, probabilmente festeggiavano l’ennesima preda martoriata
tra i loro artigli. Si levò un sommesso vento che agitò modestamente le fronde
dei sempre verdi intorno a loro, conferendo a quel luogo un aria (un’aria) ancora più solitaria di quanto già non
fosse.
“Perché
è quello che farei io.”
Peter
sapeva quale sarebbe stata la risposta. Anche quella era una cosa inevitabile,
proprio come il fatto che qualcuno avrebbe sicuramente cercato di uccidere
quelli che dentro di sé definiva con il termine di “spregevoli sfigati”.
“Kaine,
tu lo sai che mi fido di te. Hai riscattato la tua vita come pochi uomini
avrebbero saputo fare. Ti sei guadagnato il mio rispetto e anche il mio affetto
come fratello. Sono fiero di te, credimi. Hai vegliato sulla mia famiglia
mentre non c’ero e di questo, non potrò mai ringraziarti abbastanza. Sono
venuto qui, perché tu me lo hai chiesto. Non ti ho fatto domande, non ti ho
chiesto nulla. Sono venuto e basta. Non mi pento della mia scelta e, poiché tu
la reputi una cosa importante, continuerò a rimanere qui con te, a sorvegliare
quella casa in attesa che succeda qualcosa. Però, una cosa te la devo dire:
sono convinto che tu abbia un sospetto molto preciso su chi sia l’autore di
questi recenti massacri; se vuoi, puoi non rispondermi. Capisco che il tuo
passato possa tormentarti e capisco anche il fatto che tu possa essere restio a
parlarne. Mi è sembrato giusto dirtelo. Se vorrai parlarne, io sano qui.”
Kaine
si lasciò scappare un sospiro. Socchiuse gli occhi e massaggiò lentamente le
tempie con gli indici ed i medi serrati insieme.
“Pete,
sei veramente il miglior fratello che qualcuno possa desiderare. Non
fraintendermi perciò se ti dico che non voglio parlarti di questi miei dubbi,
non prima di verificare se siano o meno, solo frutto di un mio errore di
giudizio. Ci sono episodi della mia vita che non ricordo volentieri, altri
troppo difficili da spiegare. Ti ho chiesto di venire con me perché avrei avuto bisogno di qualcuno
di esperto ed addestrato nel caso avessi avuto ragione. Ti ho chiesto di venire
qui perché volevo avere i tuoi consigli. Ti ho chiesto di venire qui perché sei
tu e perché non voglio più percorrere questo sentiero da solo. Ora voglio
capire se ho ragione oppure no e dopo, in un caso o nell’altro, ti dirò tutto.”
Kaine
tornò a tenere sotto controllo l’abitazione, puntandola con la stessa
ostinazione con cui un falco punta la sua preda. Peter non aggiunse altro.
Poteva sentire tutto il dolore e la frustrazione trapelare da quelle parole e
non voleva aggiungerne altro. Chiuse per un istante gli occhi e pensò alla
moglie e alla figlia che lo aspettavano a casa. Stavano lì, entrambi in attesa
che l’inevitabile, presto o tardi, accadesse.
“Ti
dico che abbiamo fatto una c£%%£a allucinante ad infilarci in questo buco
sperduto nei boschi! Altro che rifugio sicuro! Questa è una trappola mortale!”
Sbraitò frustrato Kurt Watson, detto Alce, puntando l’indice contro Time Bomb
che, a pochi centimetri di distanza, lo fissava torvo.
“Ed
io ti dico di smettere di agitarmi le mani sotto il naso e di infilarti il
fottuto dito dove non batte mai il Sole!” replicò improvvisamente con
aperto disprezzo.“ Se non ti piace questo posto, sei libero di andartene
quando vuoi!”
“Dico
che avremmo dovuto scegliere meglio il posto dove nasconderci!”
“E
dove saremmo dovuti andare, eh mister intelligentone? Per caso a?!”
“Lì
conosco diverse persone che ci avrebbero potuto aiutare!”
Poco
distante Star Smasher e Artic osservavano la scena, poggiati placidamente ad un
tavolo da biliardo.
“Il
cugino di Alce, Roy lo Strangolatore è un mutante.” Fece il primo.
“Cosa?
Ma dai! E me lo dici così?” Gli fece di rimando incredulo Artic.
“E
come te lo dovrei dire?”
“C$%%o!
Sai quante volte ho bevuto dal bicchiere di Alce, oppure sono andato al cesso
subito dopo di lui!”
“Alce
non è un mutante e poi i mutanti mica trasmettono le malattie!”
“Primo
punto, non so se Alce sia un mutante o no. Non ci ha mai detto come ha
acquisito i propri poteri. Secondo punto, ogni giorno ne salta fuori una nuova
sui mutanti e non si sa mai. Una volta ho sentito di un mutante la cui flora batterica
era così sviluppata ed aggressiva da essere letale per tutti quelli che
toccava. E se il cugino di Alce avesse un potere del genere? O se frequentasse
qualche mutante che ha sviluppato virus o batter letali per i non mutanti?”
“Dico
che sei troppo paranoico. Io con qualche mutante ci sono stato a letto e sono
ancora qui, sano come un pesce.”
“Sul
sano come un pesce io avrei i miei dubbi!”
“Hey,
voi due!” Si voltò di scatto Alce che li aveva sentiti confabulare“ Che
c$%%o avete da ridire sui mutanti?!”
“Perché?
Anche se avessero da ridire qualcosa? Sei per caso un fottuto mutante? O per
caso lo erano i tuoi genitori?” Fece George Benedè, detto Arpione, che non
aveva mai potuto soffrire molto il compagno di squadra.
“Hai
un problema con i mutanti?!” Gli ringhiò contro Alce.
“Con
i mutanti e con i fottuti negri come te!” Gli urlò sfogando il suo odio.
In
una frazione di secondo i due si scagliarono l’uno contro l’altro e solo per un
soffio Booster Smile e No-Saint, alias Jessie Norberg, riuscirono ad evitare
che si colpissero a vicenda.
“Figlio
di un maiale!” Urlò Alce.
“Negro
e mutante schifoso!!! Sei anche una checca! So che a mutantville ci vai per
farti fare il culo dagli amichetti di tuo cugino!!!” Lo apostrofò Arpione.
L’esplosione
zittì quella canizza, ricoprendo i presenti con numerosi detriti e polvere.
Artic
e Star Smasher erano morti sul colpo. Arpione cercò di scostarsi da sopra
No-Saint che era ricoperto di sangue che colava copioso dalla nuca. Si girò a
fatica e ancora più a fatica riuscì a mettersi in piedi, anche se barcollante.
Strizzò gli occhi per vedere attraverso il fumo e si trovò innanzi Alce.
“Ma
che…” Non fece in tempo a finire la domanda. S’avvide che dal petto di Alce
spuntava qualcosa di affilato ed insanguinato. Una sorta di falcetto che
l’aveva trapassato da parte a parte e che si ritirò lasciandolo cadere a peso
morto, in terra, quasi fosse un sacco di stracci. Il volto era congelato in un’espressione di tragica sofferenza e dalla bocca
veniva fuori un liquido rossastro che s’andava spandendo sulla moquette.
Arpione, terrorizzato, tentò di indietreggiare ma cozzò contro qualcosa. Si
girò pensando ad un compagno a cui chiedere aiuto ed invece si ritrovò di
fronte al volto di specchio di uno dei macellai da cui, insieme ai suoi amici,
aveva cercato di sottrarsi.
“Sono
Armada.” Disse questi con voce metallica.
“Sono
Bestiario.” Fece eco l’altro che si faceva largo tra i corpi riversi sul
pavimento.
Quella
non era una presentazione. Era l’enunciazione di una condanna a morte.
Uno
dei muri esplose improvvisamente in una serie di frammenti che si spansero
ovunque.
Altre
due figure avevano fatto il loro ingresso. Una nera ed una rosso e blu.
Sembravano, colori a parte, due ombre gemelle partorite dalle stesse fiamme che
stavano avvolgendo rapidamente l’abitazione.
“Salve
ragazzi.” Fece quasi allegramente uno.
“Abbiamo
sentito parlare di voi.” Fece fosco l’altro.
“Speriamo
che voi abbiate sentito parlare di noi. Io sono Ragno Nero.” Fece il primo.
“Ed
io l’Uomo Ragno.”
Kaine,
da dietro i vetri della sua maschera osservò con attenzione le due sagome e si
chiese se i suoi sospetti fossero o meno fondati. Pregò ancora una volta di
essersi sbagliato.
Fine
episodio.
Ancora una volta un
ringraziamento a tutti quanti quelli che, attivamente o meno, rendono possibili
questi racconti.
Un abbraccio a tutti quanti.
Per scribacchiarmi:
spider_man2332@yahoo.com